Spazi pubblici, beni comuni

di Domenico Cecchini

Per la cultura della crescita urbana infinita, dominante fino alla fine degli anni ’70 e non ancora completamente superata, gli spazi pubblici sono ciò che resta una volta costruiti gli edifici. Le strade, parte preponderante di quegli spazi, sono quasi esclusivamente destinate al trasporto automobilistico, incontrastato regno delle quattro ruote.

Per la nuova cultura della sostenibilità e della qualità urbana gli spazi pubblici sono il cuore della città, ciò che permette agli edifici di esistere, la struttura urbana fondamentale.

Dopo la stagione pionieristica inaugurata dagli studi di W. Whyte  e l’affermarsi, nelle grandi città americane ed europee, di indagini e sperimentazioni sul campo, a distanza di trenta anni la Carta di Lipsia (2007) ha raccolto, sintetizzato e rilanciato una nuova consapevolezza.

La Carta assegna un ruolo di primaria importanza agli spazi pubblici e alla loro qualità considerati fattori essenziali per la vita dei cittadini, per attrarre risorse umane qualificate e creative, investimenti ad alto contenuto di conoscenza, turismo. Entrando più nel merito la Carta sostiene che “si deve accrescere l’interazione tra architettura, pianificazione infrastrutturale e urbanistica per creare spazi pubblici attraenti, accessibili e amichevoli per i fruitori e raggiungere un alto standard in termini di ambiente in cui si vive, una Baukultur”. Baukultur, precisa puntigliosamente il testo sottoscritto dai ministri europei, che va intesa “nel significato più ampio della parola, come la somma di tutti gli aspetti culturali, economici, tecnologici, sociali ed ecologici che influenzano la qualità e il processo di pianificazione e di costruzione” .

 

Nel rilanciare il tema degli spazi pubblici urbani la Carta ha raccolto il significato di molte “buone pratiche” realizzate negli anni precedenti. Da queste – e da altre venute dopo – emergono

temi sui quali varrà la pena di riflettere lungo il percorso che ci condurrà dalla prima alla seconda Biennale dello Spazio Pubblico.

 

Nella tradizione europea della progettazione urbana lo spazio pubblico ha sempre svolto un ruolo centrale. Le esperienze recenti di progettazione urbana sostenibile dimostrano, direi in modo ormai incontrovertibile, che nel disegno, o nel ri disegno di un quartiere o di un ambito urbano si deve partire dagli spazi pubblici, dai loro tracciati. Disegnare prima di tutto le piazze, le strade, collocare i giardini, i parchi, gli spazi verdi in modo che “facciano sistema”, integrare nel sistema i punti di accesso alla rete del trasporto in sede propria. E’ questa la struttura urbana permanente nel tempo che conferisce qualità al quartiere o alla parte di città ed è questo il passo iniziale della progettazione urbana. Così si è proceduto nelle esperienze più riuscite: prima gli spazi pubblici, poi il resto. Dove invece a venir prima e a comandare sono stati gli edifici, i volumi, la rigidità della loro tipologia o del loro orientamento uniformi – memoria dell’urbanistica razionalista e funzionalista – il risultato è stato meno convincente, anche se eccellente sotto il profilo del guadagno solare o del risparmio energetico. Il superamento dei modelli funzionalisti è tutt’uno con la definitiva acquisizione metodologica della multi dimensionalità necessaria per ottenere qualità e sostenibilità urbana.

 

Altro tema. Per ottenere spazi pubblici di qualità occorre investire in essi. Da dove prendere le risorse necessarie ? Domanda ineludibile ancora per un “tempo della crisi” di cui non è dato prevedere la durata. In molte delle esperienze che oggi consideriamo tra le migliori realizzazioni di quartieri sostenibili – realizzazioni che in genere hanno utilizzato suoli da tempo urbanizzati e dismessi (brown fields) – o di riqualificazione di quartieri esistenti, vi è stato un investimento pubblico per così dire iniziale. Importanti immobili di proprietà pubblica (suoli e edifici o attrezzature preesistenti) sono stati messi a disposizione dei governi delle città spesso attraverso trasferimento da parte dello Stato centrale. Ciò ha comportato risparmi notevoli nei costi complessivi permettendo di investire in qualità e sostenibilità e di realizzare eccellenti spazi pubblici. In tempi nei quali la vendita (troppo spesso “svendita”) dei patrimoni immobiliari pubblici è diventata un miraggio che illude di aver trovato la chiave di volta per risolvere l’incombente problema del debito pubblico, occorrono attenzione e coraggio intellettuale per difendere quelle parti di patrimonio pubblico il cui uso (nuovo) è necessario per la superiore finalità della sostenibilità e qualità urbana.

Ma il buon uso del patrimonio pubblico è possibile solo ove questo esiste ed ‘ utilizzabile, quindi in un numero limitato di casi. E’ invece applicabile ovunque l’altra parte della lezione che ci viene dalle esperienze europee e che consiste nell’attivare politiche per il recupero di quote prevalenti dei plusvalori generati dalla trasformazione urbana (rendite).

 

Terzo tema, a mio avviso il più fertile e significativo per il percorso che ci condurrà alla seconda Biennale.

Gli spazi pubblici richiedono una gestione e una manutenzione importanti. In molti casi, e in moltissime città ed aree urbane del nostro paese, lo stato di degrado degli spazi pubblici, impeccabili il giorno dopo l’inaugurazione ma in condizioni deplorevoli sei mesi dopo, ne ostacola l’uso e spesso è addirittura un deterrente alla loro realizzazione. Anche in questo caso va superata una sorta di cecità, non casuale, nel non utilizzare o addirittura nel “non vedere” le risorse reali sulle quali si può far conto.

E’ ormai consolidata la concezione degli spazi pubblici urbani come beni comuni. Per la loro gestione e manutenzione nel tempo si dovrebbe far tesoro degli studi e dell’insegnamento di Elinor Ostrom. L’economista americana, premio Nobel 2009, ha ampiamente dimostrato che la gestione e la durata nel tempo dei beni comuni è tanto più efficace ed economicamente sostenibile quanto più si supera la falsa alternativa tra un modello statalista, nel quale la gestione dei beni comuni e la definizione delle relative regole sono affidate all’autorità statale, e un opposto modello privatistico, nel quale i beni comuni divengono proprietà di soggetti privati che li gestiscono. Elinor Ostrom, grazie a indagini teoriche e sul campo condotte lungo oltre un trentennio nei quattro angoli del globo, ha dimostrato che esiste ed è estendibile a molte altre realtà un terzo e diverso modello: gli utilizzatori dei beni comuni sono responsabili della loro gestione per la quale stabiliscono le regole e i relativi controlli.

Ora, se gli allevatori svizzeri o giapponesi, gli agricoltori delle provincie di Valencia o della Murcia in Spagna o del nord delle Filippine (Luzon) possono stabilire e rispettare le regole per l’uso dei beni comuni dai quali dipendono la loro economia e il loro lavoro, in modo che non si deteriorino nel tempo, perché non potrebbero riuscire in una analoga impresa i cittadini metropolitani? Come centinaia di esperienze in tante città italiane confermano, vi sono nei nostri quartieri risorse umane e culturali – sol che si pensi alle scuole e al loro rapporto con i territori circostanti, ai centri anziani, alle associazioni e cooperative locali, alle organizzazioni giovanili – tali da rendere la manutenzione degli spazi pubblici socialmente, culturalmente, economicamente e ambientalmente del tutto sostenibile. Si tratta solo di riconoscerle “e farle durare, e dargli spazio”. Si tratta di sospingere le amministrazioni locali, Comuni e Municipi anzitutto, ad attivare politiche che incoraggino, diano autorevolezza, ruolo e funzioni ai soggetti che “dal basso” dimostrano di impegnarsi e di essere capaci di gestire e manu tenere gli spazi pubblici dei loro quartieri. Sono spazi dai quali dipende la qualità della vita, il senso di appartenenza e l’intero sistema delle relazioni sociali dei cittadini metropolitani. Sono il cuore dell’”abitare la metropoli”: condizione che accomuna oltre i due terzi degli europei.

Noi sappiamo molto poco delle esperienze concrete in questo campo. Ciascuno di noi conosce o frequenta uno o due – raramente più di cinque – comitati o gruppi o centri che sono impegnati, tra mille difficoltà e solo in forza del volontariato, a gestire spazi comuni. Credo che se ne sapessimo di più, molto di più, e se questa miriade di attività fosse rappresentata come quello che è, cioè come una vera e propria, grande risorsa umana ed economica, le cose per gli spazi pubblici delle nostre città potrebbero cambiare in meglio.

Il percorso che ci condurrà alla seconda Biennale dello Spazio Pubblico, e le stesse giornate conclusive, potrebbero essere l’occasione per un grande censimento/inchiesta sulle esperienze di autogestione degli spazi pubblici nelle città italiane. Un censimento/inchiesta che ci porti ad individuare buone pratiche, a riconoscerle, farle durare e dar loro spazio.