Intervista a Graziano Delrio

Intervista di Chiara Pignaris a Graziano Delrio, Presidente Anci – Associazione nazionale comuni italiani e Sindaco di Reggio Emilia


Con la riduzione delle entrate comunali e della crisi delle risorse esiste il rischio che lo spazio pubblico tenda ad essere sempre più interessato da scelte di “valorizzazione economica” che ne riducano la fruizione?

La privatizzazione dello spazio pubblico e a volte il negligente abbandono dello spazio pubblico a una stratificazione di funzioni non governata, sono avvenuti negli anni scorsi e non sono stati, a mio parere, un risultato della crisi economica e delle fonti di finanziamento pubblico. Si è trattato, al contrario, di uno degli esiti degli anni della crescita muscolare, del dominio di un’idea speculativa delle città, orientata alla rendita e alla dispersione. Al contrario vedo ora segnali di riflessione e inversioni di tendenza che vedono i sindaci nella tutela del territorio e delle città in particolare i centri storici. Penso ad esempio alla pedonalizzazione avvenuta a Firenze e di cui si discute a Milano, Bologna. Dopo l’ubriacatura degli anni scorsi, associata ad altri fenomeni sociali e antropologici, come la paura, oggi è evidente che le città hanno bisogno di spazi pubblici come luoghi comunitari, luoghi in cui una comunità si riconosce, e si sente a casa. Luoghi della fiducia e dello scambio collettivo, in cui i cittadini sostano, si incontrano, avvengono degli scambi culturali, economici, del tempo libero. Ma perché un parcheggio diventi una piazza, una vera piazza come agorà, non basta spostare le macchine. Occorre a monte la volontà politica, la visione di una comunità dialogante, una comunità conviviale, intendendo con questo una comunità che pensa prima alle persone, rispetto agli strumenti di cui queste si servono. Su questa visione, credo, occorre che il sindaco si confronti con i propri cittadini all’inizio del suo mandato o quando ne chiede la fiducia: questo è il passaggio partecipativo più importante, a mio parere, rispetto ai progetti per la città. Poi occorrono bravi tecnici che sappiano tradurre questa idea di città con cura, passione, qualità estetica e funzionalità.

 

Può spiegare qual è la differenza, quando dice “città che pensa in primo luogo alle persone, rispetto ai loro strumenti”?

Un esempio semplice: se devo risistemare una strada, e ho l’occasione di ripensarla, il mio punto di partenza non saranno le automobili, gli autobus e le bici, ma le persone e che utilizzano questi mezzi, la comunità di persone che attraversa questo spazio, in uno studio che armonizzi gli usi e le funzioni, partendo dalla tutela dei soggetti più deboli. Quindi prevedo percorsi fluidi e senza barriere, perché un piccolo dislivello non è un problema per una ruota di bicicletta, ma per un anziano sì. Prevedo ciclisti lenti e ciclisti veloci, cerco di creare aree con panchine per chi cammina a piedi e ha bisogno di fermarsi, di intessere relazioni. Abbiamo fatto un’esperienza combattuta ma molto positiva a Reggio Emilia in questo senso, recuperando e riqualificando una piazza centralissima, davanti al Teatro Municipale, che da decenni era di fatto un parcheggio. Era uno spazio pubblico invisibile, dove si erano accumulati cassonetti, posti auto, cabina telefonica, fermata del bus. Dopo un percorso lungo e un confronto serrato oggi abbiamo un cuore nuovo, anche affettivo, della città. Davanti al teatro municipale c’è una piazza in cui i monumenti hanno riguadagnato visibilità; ci sono panchine e poltroncine, alberi, wi fi, musica, distese, e una fontana con cento getti a riciclo continuo molto amata, soprattutto dai bambini. Cassonetti e bus hanno trovato una collocazione razionale e che non sprechi spazio. Appena aperta la piazza, i cittadini ne hanno subito preso possesso fermandosi a chiacchierare, sedendosi sulle panchine o sotto gli alberi, scattando foto. Colgo quindi un aspetto della sua domanda: in un momento di crisi economica lo spazio pubblico – e intendo anche gli spazi culturali, musei, biblioteche, o i palazzi pubblici mai aperti – , deve diventare ancora di più occasione per mettere gratuitamente la bellezza, la cultura e le relazioni a disposizione delle famiglie.

 

Ha ancora senso, oggi, il vecchio slogan “Una città a misura di bambini è una città migliore per tutti”?

Il senso è condivisibile, ma temo che lo slogan sia un po’ superato e, anzi, veicoli un’immagine diversa da ciò che desideriamo. A Reggio Emilia, come sa, esiste una esperienza importante condotta dall’amministrazione, comunale, dai nidi e dalle scuole dell’infanzia, dalla Fondazione Reggio Children e dal Centro Internazionale per i diritti dei bambini e delle bambine Loris Malaguzzi. Un approccio che è promosso e conosciuto in tutto il mondo. Alla base di questa esperienza educativa e pedagogica – in cui noi riconosciamo l’identità della città, come comunità etica – c’è la visione del bambino come cittadino, e come cittadino competente. Andrea Zanzotto ha detto che “i bambini arrivano dal futuro”. Sono cittadini che arrivano dal futuro.

Come tali prendono parte con pari dignità alla relazione di comunità. Il nido, la scuola dell’infanzia, la scuola successiva, sono luoghi di convivenza tra generazioni. Sono spazi pubblici o spazi comuni, dove una moltitudine più o meno grande di individui giovani e adulti, portatrice di molte differenze soggettive, sociali, culturali, religiose, di lingua, ma con pari dignità, convive insieme e si pone l’obiettivo di diventare una collettività. La città deve dunque rispecchiare questa inclusione e diffonderla nei suoi usi e nelle sue trasformazioni, ed essere quindi, più che città dei bambini, città delle persone, città della comunità, città che riguarda una collettività in cui è molto presente la dimensione di aggregazione, il senso del crescere insieme, con un’attenzione prioritaria alle persone in crescita, quindi con un forte senso di futuro, una forte idea di partecipazione e convivenza, del prendersi cura degli altri.

L’idea di cittadinanza e di convivenza che fanno parte della storia di Reggio Emilia (ma anche di altre città in Italia hanno una storia simile) hanno avuto forte influenza per l’identità dei nidi e delle scuole dell’infanzia: il senso di appartenenza, la disponibilità nel prendersi cura, la volontà di partecipazione, il desiderio di essere agenti attivi di cambiamento verso un maggiore benessere per tutta la collettività. La nostra responsabilità politica verso i bambini è quella di riconoscere loro la dignità di cittadini, di portatori di diritti rispetto alla città.

Per tutti questi motivi e per tornare alla sua domanda, se si sceglie questa visione di città, preferirei parlare, appunto di “città delle persone”1.

 

È ancora possibile “dare spazio”, e soprattutto “voce” ai bambini, in un periodo di crisi economica che costringe a ridurre persino i servizi essenziali?

Dobbiamo provarci: razionalizzare e riorganizzare, anziché rinunciare. Mi rifaccio a quanto detto prima per lo spazio pubblico: offrire qualcosa di nuovo, anche riducendo da qualche parte. Ad esempio: aprire le biblioteche la domenica mattina, cioè quando le famiglie possono frequentarle e, piuttosto, chiuderle in due fasce infrasettimanali. Oppure ancora cercare accordi con i pubblici esercizi per creare spazi e servizi per le famiglie nei ristoranti, dai fasciatoi alle mezze porzioni. E’ un impegno complesso, ma soprattutto ora, si possono trovare sinergie.

 

In un quadro di crisi diminuisce anche la coesione sociale e gli spazi urbani rischiano di diventare i luoghi dove più si manifestano le tensioni e il disagio. Come può essere superata l’apprensione nei confronti della sicurezza, che con l’obiettivo della protezione induce sempre più a chiudere i bambini in una condizione di cattività che soffoca ogni esperienza di autonomia, riducendoli a consumatori di merci e servizi a loro dedicati?

Le rispondo in modo indiretto. La fiducia e la speranza – come atteggiamento sociale e di comunità, declinato nella cittadinanza attiva e nella relazione tra persone – sono attitudini, se non principi, di cui abbiamo bisogno per poter guardare avanti e tutti noi, cittadini, amministratori, politici, media, abbiamo una grande responsabilità nel trasmettere questi segnali come opinione pubblica. Se, come è accaduto, riprenderà piede la paura e – conseguentemente – l’individualismo, l’odio… non avremo molte possibilità.

 

Per promuovere un’idea di città amica dell’infanzia, è più efficace partire da tante piccole “punture di spillo”, cioè piccole trasformazioni concrete, oppure puntare sulla costruzione di un’apposita struttura comunale che abbia capacità di incidere in modo ampio e trasversale nella costruzione delle politiche pubbliche?

Credo che l’una non possa prescindere dall’altra. Oggi tradurrei le punture di spillo nei termini della rete di relazioni e rete di comunità: penso alle famiglie e alle scuole, che, come abbiamo detto, sono luoghi in cui più di ogni altro, si fa esercizio di cittadinanza e di democrazia. Ma penso anche ai quartieri, alle associazioni, ai luoghi di lavoro, a quel “capitale sociale” che è sempre più importante assuma un ruolo attivo nei confronti della vita delle città. Alle amministrazioni pubbliche locali, anche le più piccole, occorre riconoscere, d’altro canto, capacità organizzativa e progettuale, vicinanza ai cittadini e ai problemi, oltre che competenza nell’assumere un ruolo di regìa. E’ nelle città, come diceva La Pira, che i problemi assumono dimensione umana, e che la gobalizzazione scarica le sue tensioni come ha spesso sottolineato Bauman. Per questo, va un riconoscimento al ruolo delle Amministrazioni locali come punto nevralgico della sussidiarietà e del muncipalismo. Il cambiamento culturale che desideriamo nella forma e negli stili di vita della città, è possibile solo se tutti gli attori sociali fanno propria l’idea che la città deve essere, come dicevo, città delle persone, dei diritti, del rispetto dello spazio pubblico come luogo di tutti (e non come luogo “di nessuno”), che le città siano davvero luoghi in cui ci sentiamo a casa “senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” e, aggiungerei, di età. Se si assume questa visione collettiva, nella quale i bambini sono inclusi, il cambiamento dovrebbe rendere le città più belle, vivibili, serene e accoglienti per tutti i cittadini, ed essere assunto quindi sia da tutte le progettazioni pubbliche, sia da tutti coloro che, nelle città, condividono questa visione e agiscono come privati.