ODE AL CONDOMINIO

La rivalsa dello spazio semipubblico.

Il mondo si sta preparando ad affrontare il pesante bilancio del post emergenza e intanto nei vari campi della conoscenza umana ci si inizia ad interrogare su come sarà il nuovo futuro e su quali scenari si imposterà la
nostra esistenza per i prossimi mesi ed anni.
Anche l’architettura è interessata da questa crisi: per la prima volta nella storia, lo spazio vive lo stress dell’obbligo di permanenza domiciliare, sollevando svariati interrogativi sui luoghi dell’abitare e sui ruoli di spazio pubblico e privato.
Lo spostamento in massa di tutte le attività umane verso i luoghi domestici, in spazi inadatti e non pronti a ricevere questa carica umana, ha contemporaneamente svuotato la dimensione pubblica della città del suo
contenuto principale: la vita. Le immagini che osserviamo inermi ci mostrano città fantasma in scenari da film, e allo stesso tempo, assistiamo sia a notevoli riduzioni dell’impatto antropico in termini di inquinamento
ambientale, sia ad un ripopolamento animale e vegetale, ricordandoci ancora una volta che il pianeta non è a nostro esclusivo utilizzo.
Le ragioni ed i perché di queste rapide modificazioni saranno oggetto di futuri dibattiti, anche grazie ai temi degli ambientalisti che prendono sempre più spazio nelle agende dei governi, e si spera, porteranno ad una
rimodulazione dell’impatto dell’uomo nel pianeta, nell’ottica di una maggiore inclusione del mondo naturale all’interno delle nostre città.
Intanto il dato certo è però che lo spazio pubblico, da sempre oggetto delle maggiori speculazioni in ambito teorico ma anche economico, vive adesso una sorta di stand-by mentre lo spazio privato ha cambiato improvvisamente significato, diventando a tutti gli effetti il luogo della densificazione delle nostre vite. E questo potrebbe segnare uno spartiacque nella modalità di vita dello spazio urbano, nella mobilità, nella socialità in generale.
Nella città porosa ed attraversabile, fatta di pieni, vuoti, e numerosissimi altri contrasti che ne producono forma e sostanza, può esistere uno spazio intermedio? E’ concepibile una dimensione semi-pubblica, capace di supplire volta per volta alle carenze di una o dell’altra dimensione?
Si può iniziare a vivere i luoghi soglia che solitamente non abitiamo e ai quali non sembriamo essere ancora interessati? Forse.
Tutti noi quotidianamente entriamo in contatto con spazi, senza abitarli; ci viviamo sopra o sotto, li attraversiamo in orizzontale o in verticale, senza interpretarli, senza rallentare il passo al loro interno. O, magari, non li vediamo, non ci vengono mostrati o ancora non li contemplano i regolamenti e le leggi.
Tutti noi, abitanti della città, abbiamo avuto esperienza di coabitazione o condivisione di spazi intermedi tra la strada e la porta di casa.
Chi di noi abita o ha abitato un condominio, sa come ci si sente in un androne, in un ascensore, nelle cantine o nel cortile condominiale. C’è una sorta di semi-appartenenza, di quasi coinvolgimento, che permea questi
spazi, e che limita gli abitanti nel loro pieno sfruttamento ed utilizzo.
Il condominio, potenzialmente, è il maggiore contenitore di vita privata e pubblica: è la prima cellula della città, la sua porta, e al suo interno è adesso necessario riorganizzare le relazioni tra spazio e vita.
Contenitore di decine di esistenze, non si capisce il perché non sia possibile farne un luogo di scambio fruttuoso: al suo interno c’è l’equivalente quantitativo del supermercato, della libreria, della farmacia, della ferramenta, e così via. Eppure le dinamiche relazionali al suo interno creano barriere che non permettono il libero scambio di beni e conoscenza, e di servizi.
Probabilmente la conformazione dello spazio interstiziale del condominio, concorre a generare questo assurdo isolamento tra i coabitanti, che, non avendo una propria piazza, non riescono a generare mercato.
Come è possibile che in un così ridotto spazio siano presenti tanti fornitori di utenze quante unità abitative? A chi conviene? Qual è il senso di questa separazione? Come è stato possibile concepire luoghi così funzionalizzati da risultare sterili malgrado la dimensione e la conformazione così intime?
Dovremmo chiederci adesso come il condominio possa diventare luogo e garanzia della diversità sociale, e dello scambio generazionale che in essa trova il soddisfacimento di molte delle esigenze delle città contemporanee.
Perché non si investe sulla possibilità di creare ricchezza attraverso lo scambio di prossimità? Perché non pensiamo che far coabitare giovani e anziani possa produrre benefici per entrambi? Le famiglie con prole e carenza di tempo, potrebbero sfruttare il lento scoccare delle ore dell’anziano solo, ripagandolo allo stesso tempo con la compagnia e il frastuono di nuove vite intorno a lui? Il giovane studente può mettersi a
disposizione nel fare la spesa per il suo dirimpettaio che soffre di mobilità ridotta, in cambio di riduzioni delle quote condominiali da corrispondere?

Lo scambio della conoscenza e dei beni a disposizione di ciascuno, possono avvicinarci ad un modello di vita comunitario più vicino alla nostra natura di animali sociali?
L’architettura, quale arte sociale che modella lo spazio e le interazioni tra uomo e ambiente, può e deve intervenire nella costruzione di questi nuovi spazi relazionali.
Il miglioramento di questi contenitori di vita passa per il loro ridisegno, la loro riconsiderazione urbanistica, anche normativa, e un coinvolgimento degli utenti interessati in tutto il processo di concezione: la partecipazione, per dirla alla Giancarlo De Carlo, il bottom-up degli anni settanta.
C’è tanto da ripensare: gli androni come salotti; i pianerottoli come balconi; i cortili come piazze; i solai come parchi, solarium, orti; le cantine come dispense comunitarie; gli ex-portierati come luoghi culturali, di culto, di
scambio di conoscenza; le attività commerciali sfitte o con chiusure settimanali come dopo lavoro o spazi per lo svago, e così via.
Sport, cultura, produzione, tempo libero, sono tutti elementi che devono investire questi spazi con violenza, così da costruire una nuova socialità che possa riproporre il modello urbano nella scala di prossimità, il vicinato.
Oggi c’è un’emergenza sanitaria ma da tempo coabitiamo un’emergenza sociale, ben più radicata e profonda. Non c’è molto da perdere nel perseguire questo obbiettivo, sopratutto in tempi in cui, avere la città in casa, rappresenta anche una possibilità di sopravvivenza.