il rifugio alpino: spazio pubblico o privato?

il 10 maggio a Roma in via Galvani 10 nella sede del CAI alle ore 19 Luca Gibello, caporedattore de “il giornale del’architettura” presenta il suo libro “Cantieri d’alta quota”.  (n.d.r). 

Tra il serio e il faceto, Mario Spada mi chiede di scrivere qualcosa sui rifugi alpini dal punto di vista dello spazio pubblico. Per non liquidare banalmente la questione dicendo che in realtà i rifugi sono strutture private e quindi non è dato spazio pubblico, bisogna pensare a due cose. La prima riguarda il contesto geografico in cui sorgono: territori demaniali, o magari anch’essi privati, ma sui quali si transita per accedere al rifugio senza chiedere permessi, senza pagare pedaggi e senza dover varcare porte, cancelli o recinzioni (in realtà, a volte alcune se ne incontrano, ma servono solo per evitare che gli armenti al pascolo si disperdano lungo le pendici vallive). La seconda, ancora più importante, è legata al ruolo stesso del rifugio. In quanto presidio territoriale in quota [mi riferisco infatti a quei ricoveri lontani da strade, impianti meccanizzati e altri insediamenti antropici, raggiungibili solo a piedi dopo almeno un’ora di marcia], il rifugio svolge un servizio di pubblica utilità: dal ricovero d’emergenza al monitoraggio, quando condotto da un appassionato ed esperto gestore, del meteo, dell’orografia, della geologia, dei movimenti di alpinisti, escursionisti o altri frequentatori della montagna. Poi, quei gestori che vivono il loro impegno come vera e propria vocazione, oltre che fornire preziose informazioni sulle condizioni della montagna, sanno anche comunicare agli ospiti l’educazione ai valori della montagna: un altro servizio pubblico, cui si aggiunge una lezione di educazione civica!

Venendo poi allo spazio fisico del rifugio, al di là delle pertinenze esterne che permettono momenti di contemplazione e relax svincolati dall’obbligo di dover per forza “consumare” qualcosa (una vivanda come un posto a sedere), anche gli spazi interni comuni possono essere vissuti con una certa libertà di movimento individuale. Ciò non significa che non ci siano regole (talvolta anche ferree) da rispettare (orari fissi di pasti e pernottamenti, uso di determinate calzature, ecc.), ma spetta in genere ai singoli ospiti annunciare la propria presenza al gestore e responsabilizzarsi nelle proprie azioni: la valenza pedagogica dello spazio collettivo come rispetto del prossimo. Tali spazi sono poi occasione di socializzazione: nello spazio comune dove si consumano i pasti i momenti di scambio involontario, soprattutto tra alpinisti, sono quasi un rito. E poi, anche arrivando al rifugio nel pieno della notte, si troverà sempre la porta aperta e si potrà godere del conforto di un riparo senza che un receptionist ci chieda i documenti. D’altronde il sostantivo scelto per individuarlo – rifugio – non è casuale: un luogo privato, che però diventa l’accogliente casa di tutti gli amanti della montagna.A patto che non “venda l’anima” al comfort trasformandosi, come purtroppo alcune fette di “mercato” auspicano, in hotel: perchè sarebbe davvero tutta un’altra storia; questa sì, completamente privata!

Luca Gibello, caporedattore de “Il Giornale dell’Architettura”, appassionato di alpinismo e presidente diCantieri d’alta quota Onlus

alta quota

Come in piazza: la sala pranzo del rifugio favorisce gli incontri casuali e gli scambi tra gli ospiti. (Nella foto di Giorgio Masserano, la nuova Monte Rosa Hütte, presso Zermatt, Svizzera, 2883 m.s.l.m.)