ETEROTOPIE DELLA CITTA’ DEI RECINTI: ENCLAVE, PRENCICT E INTROVERSIONI – OASI BALNEARE

Claudio Zanirato  | DIDA-UNIFI

La pandemia che ci ha colpito tutti di recente ha fatto emergere, in maniera diffusa e dilagante, un fenomeno già presente da decenni nelle nostre città: la tendenza all’esclusione. Nella città che implode nelle sue eterotopie, nei non luoghi della sua corporeità, da tempo hanno iniziato a proliferare miriadi di recinti individuali isolati, quasi fortificazioni tecnologicamente avanzate, involucri puri ed enigmatici, spazi conclusi. All’interno di questi si consumano simultaneamente i riti di una vita separata, solitaria, sostanzialmente priva di contatti sociali reali, traducibile in una miriade di recinti individuali. La città, in trasformazione continua, si era già instradata a diventare, in pratica, un insieme di recinti, in evidente implosione percettiva. Il modello di città diffusa è proprio questo, frammentata e segregata, dove persino i regolamenti edilizi, urbanistici e stradali, tendono piuttosto a dividere, a distanziare, che non ad amalgamare, a produrre paesaggi coerenti invece di grandi frammenti insulari. All’improvviso (in lockdown), ci siamo dovuti adattare a questo modello, che si è imposto come vincente e risolutivo, almeno in apparenza ha vinto sulla città aperta tradizionale, almeno per il momento.

Confinare e recintare sono pratiche similari e rispondono allo stesso desiderio di generare uno spazio cercando allo stesso tempo di controllarlo. Il recinto è pertanto una delle forme archetipe dell’architettura e dell’organizzazione del territorio, che avviene con una successione di limiti.

La città contemporanea, composta di isole architettoniche, fatta per punti cospicui e recinti, rispecchia la tendenza dei suoi cittadini a rimanere chiusi nel proprio guscio, tele-collegati, in piccoli giardini recintati…(cocooning). Trasformandosi da luogo unitario e ben definito in un banale e confuso accatastamento di frammenti discontinui, seppur collegati in rete, la città contemporanea sta tramutando da luogo collettivo per eccellenza, in somma algebrica di luoghi individuali. La città liberata dei recinti dell’800 ha finito per trasferirli negli oggetti architettonici che prima invece ne erano privi, e lo spazio pubblico ne subisce la stessa sorte, risultandone compresso, quasi a livello di sparizione.

“La creazione di recinti, reali o simbolici, è una risposta difensiva da parte di stili di vita che non accettano di coabitare con altri entro un insediamento circoscritto, pur coabitando il territorio”[1]. Da qui la diffusione di spazi sempre più rigidi, meno flessibili e disponibili: tasselli di un paesaggio indifferente, con personaggi che non vi abitano, ma solo vi transitano, li attraversano semplicemente sfiorandoli, ora con il terrore di rimanere pure contaminati. Questa città già esiste da tempo dentro quella reale e non c’è stato bisogno d’inventarla del tutto.

L’epidemia ha spinto verso il processo di sub-urbanizzazione, “intere famiglie a fuggire gli incontri indesiderati e le situazioni insalubri urbane, verso il rifugio dei propri giardini e gli spostamenti protetti in automobile”[2]. Perfino lo spazio pubblico del mezzo di trasporto collettivo è entrato drammaticamente in crisi, svuotandosi. Il desiderio di chiudersi sempre più spesso all’interno di un confine, dietro le mura di un edificio, nei recinti dei residences, è originato ora anche dal timore esagerato di contagio, del contatto con l’altro, che però già in parte esisteva alla base di questi modelli insediativi.

Alla grande dimensione della città corrisponde pertanto la progressiva scomposizione in “prencinct”, isole urbane in luogo degli “isolati”. In parte la città estesa si sviluppa per giustapposizione fortuita di enclave, regolate all’interno da norme di comportamento oramai perdute nell’insieme della metropoli, o meglio non più condivise dalla totalità della popolazione urbana.

Così la città tende ad essere conosciuta per punti, non sempre luoghi, e recinti, spesso fortificati, all’interno di un sistema di grandi interni, contratti e dispersi. Singole residenze, interi edifici, poli specialistici, sezioni stradali, campus tematici, interi quartieri e cittadelle, tutti accomunati dall’attenta delimitazione, protetti e rigidamente sorvegliati, spazi avvolti da manti di sistemi di sicurezza sempre più sofisticati (i grattacieli sono l’emblema dei recinti fortificati, verticalizzati).

Schede magnetiche, telecamere (termocamere) e dispositivi elettronici, regolano l’accesso ai nuovi spazi pubblici, preservandone il carattere autoreferenziale e garantendone un controllo formale, possibile solo per isole, enclaves iper-progettate immerse nel territorio indifferente e informale.

La distruzione dello spazio pubblico aperto, che da luogo comune diventa privato e chiuso, recintato e con barriere elettroniche, è il riflesso della paura sociale, dell’esasperazione della sicurezza personale, che portano alla ricerca dell’auto-isolamento all’interno di contesti spaziali personalizzati. L’ossessiva attenzione alla difendibilità dello spazio è un atteggiamento architettonico all’opposto dell’urbanità, che rievoca una sorta di medioevo elettronico, punteggiato da fortezze, con limitazioni dei liberi flussi di merci e persone.

Cancellate e recinzioni hanno già da tempo allontanato gli edifici dalla strada, cambiando il modo di costruire la città, con percorsi protetti e aree di sosta esclusive… in sostanza, attraverso il disegno dello spazio, si è cercato di ottenere il controllo dello stesso e dell’ordine sociale (è anche questa una forma di distanziamento sociale, non indotto da condizioni sanitarie cogenti).

Tutte queste entità urbane tendono ad essere localmente autosufficienti, autonome nei confronti del vicinato, con opachi perimetri che escludono e disconoscono gli immediati dintorni: all’interno, l’isolamento locale è rotto con fitti collegamenti con le reti di comunicazione, diversificate e capillari, che sono diventati utili ora per lavorare, studiare e ricrearsi, stando a casa forzatamente.

Sono queste una sorta di riduzione privatistica della sfera pubblica, all’interno di un recinto con regole e tempi propri, un governo ed una polizia esclusiva (tanti luoghi pubblici in questi mesi sono stati e sono ancora presidiati da “milizie” di varia natura, che rendono residuale la valenza di spazio pubblico, estremamente regolamentato).

Con le stesse logiche, ad estrema difesa della privacy, sono nati negli ultimi decenni molti quartieri residenziali, cittadelle private e villaggi turistici, che hanno cercato di clonare al loro interno, tra rigide e sorvegliate recinzioni, i modi e le forme di vita urbani, lasciando il più possibile fuori le deformazioni, le storture, ricostruendo un ordine, soprattutto conviviale, rispetto al caos metropolitano.

Così, all’alluvione urbana della città dispersa, ha fatto riscontro una netta costrizione dei limiti urbani dei luoghi sociali entro cui si svolge la vita cittadina. Questa stretta contiguità, fra luoghi chiusi e spazi di movimento, non comunicanti tra loro, ha generato, nel paesaggio della città diffusa, quell’effetto di eterotopia che può essere tradotto nella metafisica della contemporaneità, che l’epidemia ha solo esasperato.

Gli scenari desolati delle nostre città in quarantena (definiti appunto metafisici) non sono stati pertanto delle visioni inedite, ma hanno semplicemente amplificato una tendenza in latenza già insita nelle nostre città, con il rischio che questa evidenza non rientri del tutto, a pericolo scampato, ma si rafforzi rispetto al passato recente.

Lo spazio pubblico della città ha sempre subito l’impronta storica urbana del momento: spazio del commercio protetto, nella città densa recintata murata; spazio di movimento delle milizie, nella città fortificata, misurata e programmata; spazio di rappresentanza e d’incontro nella città aperta scenografica moderna; spazio simbolico e degli eventi nella città appariscente competitiva contemporanea; ma è stato anche, ad intermittenza, spazio politico, del confronto e della protesta. A distanza di un metro, adesso lo spazio pubblico può diventare quello delle regole, nelle città che da sempre hanno “sofferto” le limitazioni imposte che le soffocavano? Forse la gente cercherà altrove, in maniera appartata, spazi propri con regole proprie e non imposte, forse anche spazi “clandestini”, sul modello di molti già esistenti prima dell’epidemia. Il virus sta cambiando senz’altro i modi d’uso degli spazi pubblici tradizionali, come pure li sta depotenziando della loro innata intensità d’uso, delocalizzando parte di questi altrove, in angoli alternativi delle città o nei recinti privati già tanto.


[1]      Boeri-Lanzani-Marini, Il Territorio che cambia, Abitare Segesta, Mi, 1993;

[2]    P.Buchanan, Oltre il mero abbellimento, in Casabella n.597;