Territorio, insediamenti, comunità e infanzia nell’era della decrescita felice

Carla Majorano


La crisi planetaria del modello di sviluppo capitalistico che stiamo vivendo attualmente, ha messo al centro del dibattito culturale il modello decrescista teorizzato in questi anni, con varie articolazioni , da insigni studiosi quali Nicholas Georgescu-Roegen, Jean Baudrillard, André Gorz, Ivan Illich e Serge Latouche, considerato il principale promotore dell’idea della “decrescita”.
Per questa corrente di pensiero, esiste un diretto rapporto causa-effetto fra la crescita del P.I.L. e  l’esaurimento delle risorse vitali, l’incremento esponenziale delle varie forme d’inquinamento, la progressiva devastazione degli ambienti naturali e storicamente antropizzati, la disoccupazione, le guerre, il degrado sociale. Inoltre la crescita del P.I.L. non misura la crescita dei beni prodotti da un sistema economico, ma la crescita delle merci scambiate con denaro. Non sempre le merci sono beni, perché nel concetto di bene è insita una connotazione qualitativa – qualcosa che offre vantaggi – che invece non attiene al concetto di merce. Viceversa, non necessariamente i beni sono merci, perché si può produrre qualcosa senza scambiarla con denaro, ma per utilizzarla in proprio o per donarla.

Questi studiosi, anche se con accenti diversi, sostengono la necessità di una de-crescita economica e produttiva, descrivendone i vantaggi in termini di felicità individuale, di sollievo per gli ecosistemi terrestri, di relazioni più eque e serene tra gli individui e tra i popoli. La “decrescita” è per loro un passaggio obbligato per la costruzione di una nuova cultura capace di superare i terribili problemi che il sistema economico industriale, fondato sulla crescita illimitata della produzione di merci, pone all’umanità e a tutte le specie viventi.

L’idea della decrescita rappresenta una vera e propria rivoluzione poiché non solo preconizza un modello economico e sociale alternativo al capitalismo e all’economia di mercato, ma prefigura una società fondata su valori e stili di vita completamente diversi, dove l’economia è rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo.
La decrescita mira non soltanto a preservare l’ambiente naturale, ma anche a ripristinare il minimo di giustizia sociale senza il quale il pianeta è condannato all’esplosione. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sono quindi strettamente legate. I limiti del patrimonio naturale non pongono soltanto un problema di equità intergenerazionale nell’uso delle risorse, ma anche un problema di giusta ripartizione di esse tra gli esseri attualmente viventi.

La decrescita non significa un immobilismo conservatore. La saggezza tradizionale considerava che la felicità si realizzasse nel soddisfare un numero ragionevolmente limitato di bisogni. L’evoluzione lenta delle società antiche s’integrava in una riproduzione allargata ben temperata, sempre adattata ai vincoli naturali. Organizzare la decrescita significa, in altre parole, rinunciare alla credenza che di più è uguale a meglio. Il bene e la felicità possono realizzarsi con costi minori. Riscoprire la vera ricchezza nel fiorire di rapporti sociali conviviali in un mondo sano può ottenersi con serenità nella frugalità, nella sobrietà e addirittura con una certa austerità nel consumo materiale. Le riflessioni sulla decrescita si sviluppano non soltanto come speculazioni teoriche ma anche come pratica concreta e diffusa come testimoniano le innumerevoli iniziative e sperimentazioni realizzate nell’ultimo decennio in tutto il mondo.
Quello che interessa approfondire in questo documento è il rapporto fra territorio, insediamenti, comunità e infanzia all’interno di una società improntata alla decrescita felice. Per far ciò bisogna partire necessariamente dalla condizione attuale delle nostre città.

Le città moderne sono l’espressione fisica del modello economico dominante: la crescita. Tutte le città sono cresciute a scapito del territorio circostante per cui gli antichi equilibri, costituiti principalmente dalla compenetrazione e interdipendenza fra città e campagna, sono saltati e appare difficile trovarne di nuovi. Pensiamo alle grandi conurbazioni, alle periferie, alle grandi infrastrutture, ai centri commerciali, agli aeroporti: in che rapporto sono con le città di cui sono emanazione? Fanno riferimento a un livello di aggregazione superiore, quello metropolitano.
Siamo già oggi consapevoli delle storture derivanti dal modello di sviluppo metropolitano, ma che livello d’insostenibilità potrà mai avere un tale tipo di agglomerato il giorno che la produzione di petrolio scenderà anche solo di qualche punto percentuale, e la possibilità di mobilità indiscriminata comincerà a venir meno?

Ma una città non è solo mobilità. Per il suo funzionamento si utilizzano mille tecnologie: acquedotti, reti fognarie, gasdotti, reti elettriche, ascensori, impianti di riscaldamento, di refrigerazione, ecc.

Che cosa accadrà quando queste protesi miracolose non avranno sufficiente energia per funzionare? E cosa accadrà quando si presenteranno in tutta la loro evidenza, gli effetti dei cambiamenti climatici: forti ondate di calore, concentrazione delle precipitazioni in pochi giorni alternata a prolungati periodi di siccità, emergenza idrica?

Nella società della decrescita il rapporto fra territorio, ambiente e insediamenti umani vive una profonda trasformazione, si fa strada un nuovo modo di abitare e vivere, vicino al modello comunitario pre-industriale. Le comunità umane si preparano ad affrontare la doppia sfida costituita dal sommarsi del riscaldamento globale  e del picco del petrolio  e quindi le città si trasformano e ricercano stratagemmi per ridurre l’utilizzo di energia ed incrementare la propria autonomia a tutti i livelli.

In questo senso rivestono grande importanza iniziative quali: la difesa e la diffusione della biodiversità vegetale, la creazione di orti comuni e di piccoli allevamenti animali seguendo i principi della permacultura, la riforestazione urbana diffusa (orizzontale e verticale), l’intercettazione e raccolta delle acque meteoriche con la creazione di vasche e di canali urbani con sistemi di fitodepurazione, il riuso e riciclaggio delle acque di scarico depurate, la creazione di percorsi ciclo-pedonali, la condivisione dell’auto (car-sharing), l’incentivazione del paratrasporto, l’incremento nell’uso di fonti energetiche rinnovabili, il risparmio energetico in edilizia, il riscaldamento e raffrescamento passivo attraverso un approccio progettuale che segue i principi dell’architettura bio-climatica e che fa tesoro delle antiche tecniche costruttive spesso dimenticate, il riciclaggio di materie di scarto come materie prime per altre filiere produttive, la riparazione di vecchi oggetti non più funzionanti in luogo della loro dismissione come rifiuti.

Nella società della decrescita si da vita a nuove forme di convivenza tali da rispondere all’attuale disgregazione dell’organizzazione familiare, culturale e sociale della condizione postmoderna e globalizzata. Si rivalutano i legami comunitari nelle famiglie, si rompono i limiti mononucleari in cui la famiglia è stata ristretta, si riscopre l’importanza dei rapporti di vicinato, si costruiscono gruppi di acquisto solidali e banche del tempo, si restituisce ai nonni il loro ruolo educativo e di trasmissione del sapere nei confronti dei nipoti: tutto ciò comporta una decrescita del P.I.L. attraverso una riduzione della mercificazione nei rapporti interpersonali e al contempo forti miglioramenti della qualità della vita.

Il lavoro nella società della decrescita assume nuove connotazioni: l’orario di lavoro può essere ridotto sia per re-distribuire lavoro e ridurre la disoccupazione e il precariato, sia perché si riducono le esigenze di reddito per comprare merci. Il lavoro domestico, di autoproduzione, di cura, di scambio e gratuito, la prestazione di servizi alla persona sono rivalutati. Questo nuovo modello lavorativo consente che entrambi i genitori accudiscano ai figli, la donna soprattutto nei primi mesi, ma la cura dei bambini può trovare arricchimento da una dimensione comunitaria e attraverso forme di auto-organizzazione di quartiere.

Una nuova creatività occupazionale si fa strada fra i giovani, il rifiuto di partecipare al banchetto del consumismo comporta nuovi paradigmi e nuovi scenari, la sfida dei giovani è vivere come se l’utopia di un nuovo e alternativo modello economico e sociale fosse già realizzata. I giovani inventano nuovi lavori per l’economia verde: agricoltori verticali, permaculturisti, operatori greentech, produttori di carburanti rinnovabili, micro banchieri. Queste e tante altre sono le occupazioni della nuova frontiera, per ridurre il consumo, aiutare il riuso e incrementare il riciclaggio.

Anche la scuola subisce una profonda trasformazione, fra le materie di studio si reintroduce il saper fare accanto alle materie teoriche. Tutte le scuole hanno l’orto scolastico: il bambino conosce e vede le piante, la terra, i cicli produttivi, impara la trasformazione e la conservazione dei prodotti agricoli. Le scuole si arricchiscono di laboratori creativi e di officine per costruire e riparare attrezzi e giochi. La scuola si apre al territorio, alla comunità e alle famiglie perché i bambini non hanno bisogno di oggetti, ma di tempo, di attenzione, di sensibilità, di fare delle esperienze insieme ai genitori e agli altri membri della comunità, esercitando il loro ruolo di cittadini competenti e responsabili.

La società della decrescita felice è orientata al recupero, alla valorizzazione e al miglior utilizzo delle risorse e dei beni comuni attraverso percorsi di condivisione e partecipazione degli utenti finali. Mille progetti e iniziative possono partire dal basso, dai cittadini che quelle risorse e beni conoscono perché parte del loro vissuto quotidiano. Queste competenze sociali sono la nuova cassetta degli attrezzi per pratiche di co-progettazione e di auto-costruzione, per il recupero di spazi pubblici e sociali e per la definizione di servizi innovativi. Questo nuovo protagonismo sociale non è uno spot, ma un processo di arricchimento e di condivisione fra diversi che ha bisogno di lentezza e di sedimentazione.

Un cambiamento di mentalità così profondo ha bisogno di una nuova cultura. Quale mito potrà sostituire quello della crescita? Quali principi potranno guidarci nelle rivoluzioni necessarie alla società della sobrietà? Quale cultura vogliamo lasciare ai nostri figli? La cultura che meglio si adatta all’era in cui stiamo entrando, è quella della convivialità, fatta di condivisione, allegria, semplicità, amicizia, dialogo, valorizzazione delle diversità. La società conviviale dà all’uomo la possibilità di esercitare l’azione più autonoma e creativa. Se alla filosofia del mercato subentrerà diffusamente una filosofia alternativa fondata sull’ethos della trasformazione personale, del consolidamento della collettività e della coscienza ambientale, si potrà gettare le fondamenta intellettuali per l’avvento di un’era post mercato.