Spazio pubblico tra città nuove e città vecchie

La città cinese di Chongquing rappresenta il progetto di sviluppo urbano più importante del mondo. E’ una megalopoli di 32 milioni di persone che cresce nella misura di 1 milione di nuovi abitanti ogni anno, tra nebbia e smog. Un’immagine notturna la fa somigliare a New York con tanto di torri gemelle che in questo caso sono due brutte copie del Crysler. Il Pil del 2009 ha registrato una crescita del 14,9%, più di 5 punti superiore al già altissimo Pil della Cina. Un ricercatore del Ministero dello sviluppo rurale ed urbano intervistato da una giornalista dello statunitense Foreign Policy ( Internazionale del 1/7 ottobre 2010) dice :”in teoria tutto lo sviluppo deve essere pianificato ma i Comuni prendono iniziative autonome perché i piani non sono vincolanti. Fare l’urbanista è più un’aspirazione che un mestiere: per lo più si tratta di approvare piani in via di realizzazione“. Fatte le dovute differenze sembra di sentire parole familiari anche da noi. Lo spazio pubblico a Chongquing è praticamente limitato alle grandi infrastrutture viarie che di volta in volta sono realizzate per consentire la circolazione . Tra un grattacielo e l’altro lo spazio libero è davvero poco tant’è che circola un detto:”se hai bisogno di prendere in prestito dei soldi non devi far altro che sporgerti dalla finestra di un grattacielo e afferrare una busta dal grattacielo di fronte”.

Chongquing urbanizza il territorio seguendo le aspirazioni del capitale globalizzato e rappresenta un modello per le città globali plasmate sullo sviluppo senza freni. Pare tuttavia che anche le autorità cinesi siano preoccupate : Chongquing è come un treno che va più forte di quelli che davanti al treno stanno mettendo i binari. Presto potrebbe manifestarsi un’ implosione sociale ed ambientale di dimensioni imprevedibili.

E’ cronaca di questi giorni l’inaugurazione di un primo lotto della città di Masdar, sorta ex novo nel deserto di Abu Dhabi, su progetto di Norman Foster, con parametri di sostenibilità ambientale elevatissimi. Peccato, dice Nicolai Ouroussoff, il critico d’architettura del New York Times “che rifletta anche la mentalità da comunità rinchiusa che si è andata espandendo come un cancro in tutto il globo per decenni…La sua purezza utopica è ancorata nella convinzione che l’unico modo per creare una comunità davvero armoniosa, verde o di qualsiasi altro tipo, è di tagliare ogni legame con il resto del mondo”.

Spaventati da un futuro così infausto annunciato dalle città nuove ci rifugiamo nelle città vecchie e sfogliamo le pagine di Camillo Sitte, che annotò con amore e intelligenza i caratteri peculiari delle città del Medioevo e del Rinascimento, l’arte di costruire con sapienza, di calibrare i giusti rapporti tra spazi pubblici e privati in una dimensione estetica che era un patrimonio comune dell’intera comunità o di aristocrazie illuminate. Si rivolse al passato per reazione a qualcosa che non capiva e non approvava, la città ottocentesca, i grandi boulevard e le piazze sterminate, il tributo eccessivo pagato alla mobilità dei mezzi su ruota, la perdita dei valori umanistici del vivere urbano.

Ma mentre si guarda Sitte con una certa nostalgia si pensa anche agli artificiosi romanticismi d’imitazione alla Krier o ad alcune sperimentazioni del New Urbanism non del tutto convincenti.

Costruire città nuove vuol dire muoversi tra le due polarità opposte, da un lato le nuove città globali, espressione di un capitalismo aggressivo magari ingentilito da tecniche sostenibili, e dall’altro le rivisitazioni nostalgiche del passato, che evocano modelli, in gran parte inattuali, nei quali lo spazio pubblico ha un posto d’onore. Ma che succede nelle città esistenti? Che c’è in mezzo tra questi due poli ? Di tutto e di più, ma non ancora abbastanza analizzato, codificato, interpretato. Ci sono molte iniziative di pubbliche amministrazioni che da oltre 20 anni stanno attuando programmi mirati in Europa, Canada, Stati Uniti, America Latina consapevoli del valore strategico dello spazio pubblico per rendere più vivibile e sicura la città, senza trascurare i vantaggi economici che ne derivano per il turismo e la competitività tra città globali . In alcune città, in particolare dell’America Latina, il tema è strettamente associato alla sicurezza e alla legalità , come a Bogotà dove l’amministrazione cittadina ha istituito la defensoria del espacio publico per contrastare le occupazioni illegali . Ma non meno significativi sono i movimenti di base che si richiamano allo spazio pubblico. In America e in Europa si sono costituiti movimenti spontanei per la limitazione dei fenomeni di privatizzazione dello spazio pubblico . A Napoli nel tristemente famoso quartiere di Scampia il comitato spazio pubblico si batte per riconquistare spazi di libera relazione sociale , per contrastare la privatizzazione illegale operata dalla camorra; a Palermo il comitato spazio pubblico promuove iniziative tese a restituire alla vita collettiva piazze occupate solo dalle automobili. Altri numerosi esempi analoghi potrebbero essere citati. Tutti i gruppi sono accomunati dalla consapevolezza che difendere , riconquistare, costruire spazio pubblico è una battaglia di libertà, di democrazia , per un bene comune da lasciare in dote alle nuove generazioni. Questi movimenti spontanei nati in molte città di tutto il mondo ci obbligano a riflettere. Perché si stanno moltiplicando ? Quali relazioni hanno con il progetto dello spazio pubblico? Quali indicazioni possono fornire ad un progettista che intende seguire il prezioso consiglio di Louis Kahn che invitava,prima di posare la matita sul foglio, a comprendere la natura intrinseca, il principio fondativo dell’opera che si progetta?

Spesso i suggerimenti provengono da ambienti e discipline non strettamente affini . Un fenomeno interessante da analizzare è l’evoluzione della rete di internet. Poco più di 20 anni fa l’informatica era appannaggio di esperti che usavano una tecnologia molto innovativa per lavori aziendali, di ricerca e così via. Poi la rete si è estesa ed è diventata il più grande spazio pubblico, per quanto virtuale, che l’umanità abbia mai conosciuto. Microsoft ed altre aziende hanno commercializzato il software di base privatizzando la rete. Ma da 10 anni a questa parte si è sviluppato un forte movimento per il software libero in modo da garantire l’accesso a chiunque e la libera circolazione nello spazio virtuale . Quando si è capito che la rete stava diventando un grande spazio pubblico si è messo in moto un movimento di persone che si sono impegnate a garantirne accessibilità, libertà di movimento, controlli autogestiti, partecipazione . Linux, Ubuntu , Wikipedia sono nomi che significano gratuità, partecipazione , democrazia, nessuna esclusione di tipo politico, sociale, razziale. Contemporaneamente è nato un movimento che dichiara imprescindibile mettere la conoscenza tra i beni comuni da tutelare e valorizzare, alla stessa stregua dell’ambiente, dell’acqua, dell’eredità storico culturale. “I beni comuni sono <a titolarità diffusa>, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell´interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero <patrimonio dell´umanità>”(Stefano Rodotà, la Repubblica 10 agosto 2010)

E’ questa, probabilmente, la spiegazione del proliferare di movimenti che si richiamano allo spazio pubblico: è un bene comune da tutelare e valorizzare come gli altri beni comuni, non a caso come gli altri sottoposto alle pressioni opposte di privatizzazione e pubblicizzazione.

Sono movimenti di riappropriazione civile della città fisica che hanno l’obiettivo di costruire luoghi gradevoli, accoglienti, sicuri, più spesso di riqualificare luoghi degradati, senza essere costretti a vestire i panni del venditore o compratore, fedele o infedele, di un’etnia o di un’altra. Sono movimenti per la pedonalizzazione,la ciclabilità, il verde, per spazi che distribuiscano funzioni essenziali alla vita collettiva , servizi di prossimità, nuove opportunità di vita sociale.

Assumere lo spazio pubblico come bene comune, interpretare i messaggi che provengono dai movimenti spontanei della società , può aiutare sia gli amministratori che i progettisti a trovare nuovi più attuali parametri di progettazione e sottrarsi ai modelli delle nuove città globali o delle rievocazioni romantiche del passato. E può aiutare anche a rivedere criticamente la modesta  visione che limita la portata del tema alla riqualificazione di alcune piazzette.

Come nel fenomeno internet il pensiero esperto dei maghi dell’informatica si è incontrato con il pensiero non esperto dei comuni utenti per produrre software partecipato e tutelare la libertà di circolazione nel grande spazio del web, allo stesso modo è auspicabile che possa avvenire un incontro fertile tra amministratori, progettisti e movimenti di base per delineare le nuove configurazioni dello spazio pubblico urbano .The Chinese city of Chingquing is the biggest urban development project in the world. It is a 32-million megalopolis growing at the rate of one million new residents a year, embraced by fog and smog. A researcher from the Ministry of Urban and Rural Development says: “In theory, a ll development is meant to be planned, but municipalities take their own initiatives independently as plans are not binding. Being a planner is more an aspiration than a profession: basically, it’s really about approving plans already being implemented”.

Taking obvious differences into account, these words sound familiar to us. Public space in Chongquing is practically limited to main transport arteries that get built from time to time to enable road circulation. There is not much room beween skyscrapers – so much so that, according to  a popular saying, “if you need to borrow money, all you have to do is lean over from your window and grab an envelope from the skyscraper in front of you”.

Chongquing urbanizes its territory following the aspirations of globalized capital and represents a model for global cities forged on unrestrained growth. Apparently, Chinese authorities are worried: Chongquing is like a train running faster than those who are laying tracks in front of it. There is a risk for a social and environmental implosion, whose magnitude cannot possibly be predicted.

Current chronicles inform us about the inauguration of the first section of Masdar, the new city designed by Norman forest in the Abu Dhabi desert according to extraordinary environmental standards. What a shame, however – says the New York Ties architectural critic, Nicolai Ourussof – that [in Foster’s Masdar] “his design also reflects the gated-community mentality that has been spreading like a cancer around the globe for decades. Its utopian purity, and its isolation from the life of the real city next door, are grounded in the belief — accepted by most people today, it seems — that the only way to create a truly harmonious community, green or otherwise, is to cut it off from the world at large.”

Perhaps we can take some comfort from leafing through Camillo Sitte, who studied with scholarly love the cities of the Middle Ages and of the Renaissance and their ability to  build and calibrate the proper relationships between public and individual spaces in line with the high aesthetic standards of the educated class of his time, but often of the whole of society. But at the same time we also have to take into account artificial romanticisms a’ la Krier or some not entirely convincing experimentations of New Urbanism.

Building new cities implies negotiating two opposing polarities: on one hand, the new global cities, symbol of an aggressive capitalism perhaps embellished by sustainability features, and on the other, voyages into the past, evoking hardly applicable models of generous public space. But what is happening to the cities that are there already?

All sorts of things, but so much still needs to be analyzed, codified, interpreted. Many municipalities in Europe, North America and Latin America are now acting on the premise that public space has a high strategic value, together with advantages for tourism and global competition. In some cities, like Bogota’ with its defensoria del espacio publico, public space is safeguarded against illegal occupation. Both in America and Europe many grassroots movement have come to life to fight against attempts to privatize public space. In Naples, in the notorious Scampia district, a Public Space Committee  is active to re-conquer spaces for free social interaction, in opposition to attempts to occupy illegally public space on the part of the camorra; in Palermo, another Public Space Committee is trying to reclaim to public life urban spaces and piazzas taken over for parking purposes. All of these groups, and many others, share the realization that defending, re-conquering, building public space is a fight for freedom, for democracy, for a common good to bequeath to future generations.

All of these movements, born spontaneously in many cities all over the world, should give us reason to think. Why are they multiplying? How can they be related to the quest for public space? What can a designer or planner learn from them who intends to follow Louis Kahn’s priceless advice to comprehend a project’s inherent nature, its founding principles, before putting one’s pencil on a sheet of paper?

Often, ideas come from environments and disciplines not directly related to the design profession. One example is internet. Twenty years ago, computers were the restricted realm of experts who used a very innovative technology for business or research purposes. Then the web expanded and became the biggest, albeit virtual, public space humankind has ever known. Microsoft and other companies commercialized basic software and privatized the web. But starting from ten years ago, a strong movement came to the fore which developed freeware to guarantee to all access to, and free circulation in, virtual space. And when it became apparent that the web was becoming a huge public realm, a great many people set a movement in motion to guarantee access, freedom of circulation, self-managed controls, participation. Linux, Ubuntu, Wikipedia are names that mean for-free, participation, democracy, and total lack of exclusions of a political, social, ethnic nature. “

At the same time, a movement rose affirming the need to consider knowledge as a public good to safeguard and improve, just like the environment, water, and all sorts of artistic and historic heritage.

Public goods are characterized by “diffused ownership”, they belong to all and to none, in the sense that all must be able to access them and nobody can claim exclusive title to them. They must be administered starting from the principle of solidarity. They incorporate the future’s dimension, and therefore they must be governed also in the interest of future generations. In this sense they truly are a ‘patrimony of mankind’ (”(Stefano Rodotà, la Repubblica, 10 August 2010).

This may be a good explanation for the proliferation of movements identifying themselves with public space: public space is a public good to safeguard and enhance just like other public goods, which are – not surprisingly – also threatened. They are movements aiming at re-conquering the city and creating places that are pleasant, welcoming, safe, or at regenerating degraded areas. They advocate pedestrianization, cycling paths, parks, spaces that are essential for all, neighbourhood services, new opportunities for social interaction.

Valuing public space as a public good and interpreting the messages arriving from the grassroots can help both administrators and planners to find new and better design criteria and set themselves free both from the model of the New Global City and the romantic reconstructions from the past. It can also help in widening a narrow view that restricts the public space concept to the refurbishing of small city squares. Just like in the world if internet the brilliance of the gurus of computer science merged with the non-expert thoughts of common users in producing participated software and safeguarding freedom of circulation in the web’s great space, there is hope that city managers, designes and citizens’ movements may find a common language to create new forms for the public space of tomorrow.

1 Response

  1. Per una Carta dello Spazio Pubblico

    Caro Mario: Eccolo, il felice esordio del Forum. Il tuo articolo mi e’ piaciuto assai. e mi ha fatto venire in mente che uno degli sbocchi della Biennale potrebbe essere una “Carta dello Spazio Pubblico” da tradurre in un mare di lingue e sottoporre all’attenzione della cosiddetta comunita’ internazionale. Con il “popolo dello spazio pubblico” autocostituito in movimento virtuale.
    L’esempio della citta’ cinese mi ha anche ricordato che almeno le citta’ cinesi che ho visto di recente (Pechino, Shanghai, Nanchino) non sono necessariamente foreste di grattacieli e basta. Anch’esse, ad esempio, hanno parchi e spazi verdi. Quello che spaventa e’ l’uso dello spazio pubblico come elemento di affermazione delle conquiste del potere e come piatto obbligato del menu’ dell’espansione urbana. Ma se ne puo’ parlare. Quello che conta e’ che il modello negativo della citta’ globale e’ potente e mobilitante: tutti sentono che i progetti delle nuove citta’ vanno nella direzione sbagliata, e che lo spazio pubblico puo’ diventare un baluardo ed una bandiera.